La danza è una disciplina totale che lavora su piani molto sottili, non si tratta di un’attività ginnica o di uno sport. Per questo dico sempre che la sala è un tempio.
“I piedi della Terra sono i miei piedi, adesso, e il corpo delle montagne sacre ora è il mio corpo. La voce della pioggia è la mia voce, la mente del cielo e la mia mente sono una cosa sola, adesso.”
Canto Navajo
La sala danza, un tempio sacro
La danza è una disciplina che lavora su piani molto sottili, non si tratta di un’attività ginnica o di uno sport. Per questo dico sempre ai miei allievi che la sala è un tempio, uno spazio sacro, che ci permette di vivere un’ esperienza sempre straordinaria. Ogni lezione avviene in quel preciso spazio tempo, unico e irripetibile, e con quei corpi determinati.
Lo spazio di lavoro diventa quindi un confine, un setting preciso, che rappresenta un “mondo altro” dove non valgono le regole del fuori (prestazione, velocità, efficienza, concorrenza).
Entrare in sala con calma, assaporare il silenzio, gli scricchiolii del pavimento, i rumori in lontananza, le declinazioni di luce, è un modo per accedere ad una dimensione dove il piano cognitivo si ritira per ridare progressivamente priorità ai sensi.
Pensiero e parola, e quindi ragionamenti e riflessioni, che ci accompagnano per la maggior parte della giornata, dovrebbero essere depotenziati per dare spazio alla risposta immediata delle nostre percezioni.
Maurice Bejart diceva: “Si entra in sala danza come si entra nel tempio, nella moschea, nella chiesa, nella sinagoga, per ritrovarsi, riallacciarsi, unificarsi.”
In questo perimetro che è la sala danza ognuno trova il suo spazio di lavoro, sicuro e confortevole, dove può muovere e sperimentare le proprie capacità in assenza di giudizio. Una condizione decisamente inusuale nella vita ordinaria dove siamo spesso misurati a partire dalle nostre performance, dove c’è sempre un’aspettativa su di noi che regola e precede le nostre azioni, e dove ci sentiamo spesso invasi da un sovraccarico di informazioni che ci inducono a reagire in modo urgente e automatico.
La sala danza quindi non è solo il luogo concreto dove ci si muove ma anche quella dimensione dove si ha l’opportunità di riscoprirsi e di riappropriarsi di parti di sé che non sono solo fisiche. L’ascolto – anche solo del respiro che ci abita – diventa spesso un atto di ritrovata pacificazione. “Io ci sono adesso”, “Ora esisto solo per me”.
Ancora Bejart: “La lezione quotidiana di danza non deve avere per obiettivo l’acquisizione di un nuovo virtuosismo né l’insistenza su quello già conseguito. Non è una ginnastica, è una presa di coscienza.”
Qualche esempio: dopo una lezione sullo spazio vuoto, un’allieva ha ridefinito gli spazi di casa per creare più apertura, dopo una sperimentazione sul tempo lento un’altra allieva ha iniziato a fare quindici minuti di meditazione mattutina, un allievo che guardava spesso in basso verso il pavimento e che non riusciva a tenere gli occhi all’orizzonte, dopo qualche mese cambiando postura e allenandosi ad un nuova visione (più coraggiosa e più presente) ha iniziato ad ampliare il suo giro di conoscenze e a farsi dei nuovi amici.
Quando parlo di disciplina totale intendo dire che ogni cosa che agisce a livello corporeo ha un effetto sulla mente e ogni cosa che ha un effetto sulla nostra mente ha un effetto diretto sulle nostre azioni e di conseguenza sulla nostra vita.
Non ha caso la danza è l’arte del cambiamento, dell’incessante evoluzione. In questo senso quest’arte è totale: ogni esistenza è caratterizzata dalla modifica continua.
Siamo prima con il corpo
Precipitiamo in questo mondo con un corpo ed è con questo strumento che siamo costantemente “presenti” a noi stessi e agli altri. Noi “ci riceviamo”, riceviamo noi stessi, solo ed esclusivamente grazie alle informazioni che provengono dal nostro universo sensoriale.
In fondo, il modo in cui camminiamo, cantiamo, ridiamo, abbracciamo un’altra persona, siamo “esattamente noi”, questo è l’insieme che ci definisce in modo inequivocable. Il timbro della nostra voce ad esempio, che è unico al mondo (oltre sette miliardi di persone, oltre sette miliardi di voci), è qualcosa che raggiunge gli altri in modo diretto e così è per il nostro sguardo o per il modo di sorridere.

Pensiamo semplicemente a questo: nessuno ha accesso ai pensieri degli altri ma tutti quanti abbiamo “accesso” al corpo degli altri. Possiamo nascondere dei pensieri ma non possiamo “nasconderci” dal nostro corpo perché siamo prima di tutto entità fisiche, aggregati di materia. Ecco perché Il 55% del messaggio comunicativo nell’uomo è dedotto mediante il linguaggio del corpo (gesti, mimica facciale, posture), Il 38% dagli aspetti paraverbali (tono, ritmo, voce) e solo Il 7% dalle parole pronunciate, cioè dal contenuto verbale. Qualcosa parla sempre (molto) prima di noi.
Ma se il mondo in cui viviamo è nella dittatura della parola siamo persuasi a pensare che siamo prevalentemente quello che diciamo, quando in realtà è l’azione che ci definisce, quell’azione discreta con cui componiamo i nostri gesti e i nostri movimenti nel mondo, ogni giorno della nostra vita.
Siamo anche in un qualche modo l’insieme delle nostre memorie cellulari e corporee, la somma delle nostre esperienze sensoriali, i profumi, gli odori e i sapori che ci hanno accompagnato da bambini, i baci che abbiamo dato, gli abbracci che abbiamo ricevuto, i dolori fisici che abbiamo sperimentato, e le ebbrezze vissute in certi momenti di trascurabile felicità.
Più che il nostro carattere – che è piuttosto sfuggente e che si modifica nel tempo – è quello che abbiamo attraversato con il corpo a costituire la nostra vera unicità. Possiamo quindi dire che ogni azione che emana dal corpo ha un rimando molto più profondo.
Il respiro
Percepirci nell’integrità del nostro essere.
Il respiro è il movimento essenziale che ci connette immediatamente al nostro “sentirci vivi”. Il suo andamento ci permette di entrare subito e naturalmente in quella che è la dinamica del movimento: di fatto un’alternanza costituita da una espansione e da una contrazione. Quando respiriamo consapevolmente però non immettiamo solo ossigeno nei nostri polmoni e nelle nostre cellule, ma facciamo un’esperienza di presenza che ci da la possibilità di vivere in una dimensione intensa dove non c’è traccia di eventi passati né di anticipazione sul futuro. Semplicemente siamo, partecipiamo dell’integrità del nostro essere nel qui e ora.
Il movimento
Un’archeologia di esperienze a servizio del gesto.
Il movimento non è solo il risultato di un corpo che cambia la relazione fra le sue parti. Ogni gesto che facciamo è un racconto, un archivio messo a disposizione, il risultato di una stratificazione di esperienze. Al di là del fatto fisico quindi, ogni movimento compiuto con una certa consapevolezza e qualità, può diventare poetico, ovvero denso, rlievante, comunicativo. La tecnica in fondo serve proprio a questo: a donare intenzione, fluidità e verità al nostro movimento in modo che si trasformi in un atto che vale la pena “far nascere” e “donare al mondo”.
La relazione
Per un’educazione alla complessità.
La relazione è un altro dei pilastri nella didattica della danza. Durante una lezione non incontriamo solo gli altri corpi ma stabiliamo continue relazioni anche con il pavimento, con lo spazio, con la musica, con un oggetto scenico. Potremmo dire che il danzatore è una creatura “assetata di relazioni”. Si impara e si è spinti a proseguire nel movimento perché la dinamica ci permette di stabilire continuamente dei legami. Quando muovo una parte del corpo ad esempio sono in relazione con il suo peso, con la sua estensione, con il suo volume e con molti altri elementi.
Come nella vita, anche nella danza questi legami sono fondamentali, perché è solo grazie a loro che possiamo evolvere e sbocciare come corpi danzanti.
Ogni nuova relazione costituisce infatti un nuovo mondo da esplorare: se decido di muovermi al suolo esplorando la relazione con il mio peso, scoprirò sicuramente qualcosa di nuovo. L’aspetto più formidabile della relazione è che mette in discussione, rielabora e riformula continuamente i nostri schemi corporei e mentali permettendoci di cambiare e di aprirci a nuove possibilità.
La relazione è quindi, ancora una volta, mostrarsi disponibili al cambiamento.
Ogni sperimentazione nella danza in un qualche modo appartiene a una sfida più ampia che ci mette costantemente in contatto con gli altri ma anche con noi stessi. Si tratta di un’arte generativa e trasformativa perché porta ciascun allievo a confrontarsi con situazioni sempre nuove, imprevedibili e complesse.
Se pensiamo ad un’improvvisazione di movimento chiediamo una grande competenza al nostro “sistema”: di sviluppare dei movimenti, di abitare un certo spazio e un certo tempo, di accogliere l’imprevedibilità di un contatto, di gestire più ritmi insieme, di saper aspettare l’inizio o la fine di una dinamica, di fare una pausa. Quindi danzare è in questo senso (lo confermano anche le neuroscienze), acquisire competenze sempre più stratificate.
La bellezza della danza contemporanea quindi è anche questa sfida alle nostre abitudini di movimento ma anche di visione. Grazie alla relazione possiamo sviluppare un cervello sempre più pronto e raffinato (il corpo è in grado di percepire più cose contemporaneamente come lo spazio, il tempo, l’altro) e impara ad essere reattivo, a trovare soluzioni efficaci, a risolvere problemi, a prendere decisioni rapidamente, competenze che vengono trasferite a tutti i piani del nostro essere.
Tutte queste facoltà acquisite hanno un risvolto a livello globale e possono essere reinvestite nella vita di ogni giorno. A un corpo pronto, efficiente, resiliente corrisponde una mente pronta, efficiente, resiliente.
Ecco perché la danza è una disciplina totale. Tutto quello che accade (e che viene integrato) a livello sensoriale e motorio è “già successo” contemporaneamente anche a livello mentale. Come ricorda San Tommaso D’Aquino: “Nulla è nella mente che prima noi sia stato nei sensi.”
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